Alfonso di Castiglia, Libro de los juegos, 1283, su gentile concessione Bridgeman Art Library v. Corel Corp.

Frustate per chi gioca e bestemmia fra Empoli, Monterappoli e Pontorme. Lo Stato controlla.

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Giochi e divieti negli statuti medievali del territorio empolese

Alfonso di Castiglia, Libro de los juegos, 1283, su gentile concessione Bridgeman Art Library v. Corel Corp.
Alfonso X di Castiglia, Libro de los juegos, 1283, su gentile concessione Bridgeman Art Library v. Corel Corp.

La necessità di controllare le manifestazioni ludiche e ogni tipo di gioco, per ogni tipo di Stato, è una delle costanti, da sempre, nella storia. I giochi coinvolgono tante persone, e svolgono un ruolo sociale significativo. Il gioco d’azzardo poi, è uno dei simboli della trasgressione, è la sfida nei confronti della sorte, è l’illusione della fuga, è l’umana hybris. Durante il medioevo i giuristi operarono la distinzione netta fra giochi d’azzardo e giochi di abilità; vietati i primi, dove la sorte giocava un ruolo determinante e si scommettevano soldi o altre utilità, consentiti i secondi. Inoltre, i giochi vietati di qualsiasi tipo portavano con sé spesso risse, turpiloquio, bestemmie, e fungevano così da generatori di altri reati, spesso anche puniti più duramente del gioco stesso, mettendo in pericolo l’ordine pubblico. 

La disciplina dei giochi riscontrabile nelle redazioni statutarie comunali fra Trecento e Quattrocento, pur assumendo talvolta caratteristiche variabili, risulta normalmente omogenea, fondata sulla trasposizione e l’adattamento a livello locale della normativa elaborata dallo stato a livello centrale. Nello stato fiorentino, fa da apripista per il periodo che andiamo ad esaminare, lo Statuto del Capitano del Popolo, negli statuti della Repubblica Fiorentina del 1322-25, in particolare la rubrica VI del libro terzo intitolata “De ludis vetitis et mutuantibus ad ludum et ludos retinentibus et de contractibus factis causa ludi”. Da questa disposizione traggono origine le norme elaborate dagli statutari a livello locale dei comuni e perfino dei singoli popoli. Per quanto di nostro interesse, esamineremo dunque la disciplina del gioco negli statuti, riferibili peraltro a differenti epoche, di Pontorme del 1346, di Monterappoli del 1393 e di Empoli del 1428. Nella norma statutaria fiorentina, lunga e dettagliatissima, leggiamo: “Statutum et ordinatum est quod nullus in civitate vel districtu Florentie ludat vel ludere debeat ad ludum çardi seu çare vel morbioli nec ad alliossos vel guerminellam nec ad ludum qui dicitur coderone, salvo quod ludus ad alliossos non vendicet sibi locum in forensibus”; vietato anche il gioco “ad marellas” e diverse altre tipologie, dove l’alea costituiva una componente fondamentale insieme alla posta in gioco, in denaro o altro. Tutti i mezzi atti a contrastare la pratica di tali giochi erano ammessi; era ammessa anche la collaborazione di agenti segreti, e addirittura la tortura, utile per estorcere confessioni. Il podestà e il capitano del popolo, per le indagini, potevano avvalersi della collaborazione dei preti, che conoscevano nel dettaglio la popolazione, dei rettori dei popoli e di chiunque potesse in qualsiasi modo fornire informazioni sulla violazione dei divieti.  Pesantissime le sanzioni pecuniarie per i contravventori, e qualora non fossero state regolarmente pagate entro dieci giorni si sarebbero potute trasformare in pene corporali (frustate) e detentive. Per chi fosse stato sorpreso a violare la legge, era prevista anche la distruzione in luogo pubblico degli strumenti per il gioco, come le tavole, le lapidi, i dadi. Era permesso giocare a tavola reale, e quindi detenere le tavole ed i dadi necessari per il gioco, soltanto nelle vie pubbliche e nelle piazze, in modo tale che fosse garantito il controllo da parte di chiunque.

Vietatissimo dunque il gioco nei luoghi chiusi e riparati, così come nelle osterie e nei luoghi dove si vendeva vino a minuto; queste ultime rivendite, per rendersi riconoscibili, dovevano esporre all’esterno, come previsto dallo statuto,  un’insegna recante il giglio rosso in campo bianco. Poche le eccezioni a queste regole, solitamente riferibili ad alcuni giorni dell’anno variabili da luogo a luogo.

I giochi vietati negli statuti di Pontorme del 1346

Cominciando la nostra breve disamina, vediamo che negli statuti di Pontorme del 1346, come in ogni altro comune, la repressione del gioco d’azzardo era di competenza podestarile, ed erano puniti sia i giocatori che coloro che assistevano nel raggio di cinque braccia allo svolgersi della partita. Il gioco vietato poteva essere accertato “per inquisitionem, denuntiam et accusationem et repertos culpabiles” dal notaio e dalla sua guardia, che avevano il compito di riferire immediatamente al podestà. Norme analoghe si ritrovano in molti statuti delle comunità soggette contermini, e traevano origine, come abbiamo detto, dalle disposizioni cogenti contenute negli statuti fiorentini che vietavano il gioco d’azzardo e regolavano minuziosamente tutte le tipologie di giochi esistenti al tempo. Anche la bestemmia, reato spesso conseguente alla perdita al gioco, era di competenza del podestà, ed era punita con la somma di quaranta soldi. In linea generale, come in tutti gli statuti coevi, i delitti commessi di notte vengono puniti molto più duramente rispetto a quelli commessi durante il giorno.

Lo statuto di Monterappoli del 1393 e il gioco della zara

Anche qui molte rubriche statutarie sono dedicate alla repressione di alcuni comportamenti, evidentemente diffusi più di quanto non sia lecito pensare fra la popolazione. Particolare riguardo pure a Monterappoli nei confronti dei divieti relativi ai giochi proibiti, come il gioco della zara. Questa rubrica si trova in quasi tutti gli statuti dei comuni rurali del Contado della Repubblica fiorentina, la quale per evitare rancori fra le famiglie, risse, bestemmie e turpiloquio, nei suoi ordinamenti proibiva tutti i giochi d’azzardo e in particolare questo. Il gioco della zara è quello che si fa con tre dadi e fu sicuramente il più diffuso fra i giochi d’azzardo di questo periodo in tutti gli stati italiani; celebre la menzione di Dante nel Canto VI del Purgatorio: “quando si parte il gioco della zara, colui che perde si riman dolente, repetendo più volte e tristo impara”. Il gioco della Zara, nella penisola italiana veniva praticato tirando semplicemente tre dadi e dichiarando, prima del tiro, quale sarebbe stato il risultato ottenuto. Il vincitore sarebbe stato colui che tirava per primo il risultato “chiamato”. I giocatori si alternano, tirando i tre dadi; inizia chi vince la battaglia. Chi tira i dadi e ottiene 3, 4, 17 e 18 ha ottenuto zero. Tutti questi numeri vengono chiamati “azar” e non valgono. Chi tira i dadi, deve, prima del lancio, dichiarare un punto da 5 a 16. Se il numero esce vince. Con tre dadi, i numeri che escono con maggiore probabilità sono il 10 e l’11. Si suggerisce di limitare il numero di volte che un giocatore può dichiarare tali punti. Anche se la Repubblica fiorentina proibiva i giochi d’azzardo in tutto l’anno, spesso tollerava delle eccezioni: li permetteva nel comune di Monterappoli ad esempio nell’occasione del primo di maggio, quando i coloni si raccoglievano per festeggiare la bella stagione. In un piccolo comune come questo, evidentemente si riteneva che raro sarebbe stato il caso di disordini. Era permesso il giuoco della tavola reale, come nello statuto fiorentino. Gli statutari monterappolesi con la rubrica 74 avevano proibito anche il gioco della palla, ma considerando che esso si faceva per solo divertimento e non per azzardo, fu cassata la relativa rubrica con la rubrica 5 delle addizioni e correzioni fatte allo statuto dagli statutari il 24 gennaio 1395.

Il gioco a Empoli

Nella rubrica dodicesima dello statuto del comune di Empoli del 1428 si legge la previsione del divieto di giocare a dadi ed anche a carte, che all’epoca si chiamavano naibi. “Statuirono ancora che niuna persona di detto comune per alcuno modo possa giucare con dadj o naibj se già non giocassino a tavole a pena di lire tre per ciascuna volta. Et possa et sia lecito al Podestà in ciò procedere per via d’acusa et di inquisitione et notificagione et tenere sopra di ciò spie secrete et tenere ogni modo che gli parrà più utile a despegnere detto giuocho”. Servizi segreti anche a Empoli dunque, atti a reprimere il gioco ed eventualmente a segnalare all’autorità pubblica i contravventori. Non dimentichiamo che alla fine del Trecento Firenze ha estremo bisogno di soldi, con un “monte” (il debito pubblico) di oltre tre milioni di fiorini in vertiginoso aumento, e perciò non esitava a far cassa in ogni modo, soprattutto a carico dei poveri abitanti del contado. “Qualunque ritenessi giuocho nella sua habitatione o in altra casa o capanna o bottega, sia punito come s’egli giucasse. Et qualunche di nocte giucassi, sia punito di pena doppia et così chi ritenesse il giuoco; chi starà ad vedere il giuoco apresso a braccia tre sia punito come s’egli giucassi. Chi presta tavoliere per giucare dadj o naibj o danari a giuoco caggia in pena di lire tre” e così via; ma nonostante tutti questi divieti, i cittadini continuarono a giocare; ed i podestà a punire.

Paolo SANTINI ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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